Siena, 30 luglio.
Pier Antonio Gori, protettore e promotore delle arti, ha organizzato nel salone dei ricevimenti del suo nobile palazzo un’accademia poetica d’eccezione con l’esibizione di Francesco Gianni, arcade e poeta improvvisatore tra i più acclamati in Italia, “i cui portenti sembreranno favolosi all’attonita posterità”.
Il “portento” che Gianni quella sera comporrà e reciterà all’istante avrà per protagonista “Francesca da Rimini”, personaggio al quale, fino ad allora, nessuno aveva mai dedicato alcun tipo d’opera.
Una Francesca creatura letteraria che, per la prima volta da quel momento, vivrà di vita propria al di fuori della Divina Commedia segnando l’incipit della nascita di un mito tra i più duraturi e popolari della cultura moderna. Una Francesca ‘nuova’che, pur con le radici in Dante e in Boccaccio, è figlia dell’Illuminismo e della Rivoluzione.
Assolutamente nuova. Non più peccatrice all’Inferno come nella Commedia, ma eroina dell’amore, emblema di fedeltà e di libertà, portatrice di valori positivi.
Una Francesca per la prima volta in assoluto chiamata “da Rimini” e non “da Polenta”.
Un poemetto, quello composto da Gianni, che ha almeno due elementi che lo caratterizzano come rivoluzionario.
Il primo – che Pier Antonio Gori sottolinea nella prefazione alla versione data alle stampe – è il coraggio dell’autore di dissacrare Dante e la Commedia, di “cantare sopra un sì delicato soggetto” per nulla intimorito dalla “celebrità dell’Alighieri che sì nobilmente trattollo” e che invece alcuni “rettili del Parnaso” avevano rifiutato.
Il secondo elemento riguarda il cambio di prospettiva nella narrazione della storia della “Bella d’Arimino”, che da ben quattro secoli, col nome di Francesca da Polenta, veniva ancora proposta come monito e come emblematica drammatizzazione di una meritata pena infernale.
In quella serata senese la Peccatrice viene trasformata in vittima innocente della violenza e della crudeltà, in un’eroina che neppure la morte riesce a fermare nel suo nobile e potente slancio amoroso.
Ad accompagnare nel suo sogno poetico Francesco Gianni, novello Dante, infatti, non sono né la Morale né la Giustizia di quel mondo che in quei giorni stava crollando. Né la Poesia né il Sapere. Ma è Amore. È l’alato figlio di Venere, che con i “soavissimi strali” del desiderio inizia, presiede e conclude la costruzione di quel sogno.
Amore, che compare all’improvviso dallo squarcio di una fosca nuvola vermiglia, prende per mano il poeta – Gianni, naturalmente – e lo conduce in volo in un boschetto ove, come per magia, la nebbia infernale si dirada per far apparire una Francesca “assisa in frondifere dimore”.
Amore che distrae gli amanti dalla lettura del libro fascinoso e fa loro incrociare gli sguardi. Un libro, anche qui galeotto e ruffiano, che permette a un Paolo dall’occhio “industre” di palpare leggero con “mano discepola” il “docil ginocchio” della “Bella d’Arimino”, che s’abbandona al “caldo Amator”.
E sono baci, e baci, e amplessi, chissà quanto casti, in un crescendo fino all’alba. Poi, all’improvviso, tutto si rabbuia e irrompe dal bosco il “ceffo di Gorgone”, il turpe Gianciotto che, gridando, trapassa con la spada il cuore dei due giovani innamorati. Ma la spada e la morte nulla possono contro gli amori “più audaci”. E i baci appassionati degli amanti si fanno ancora più intensi: “Le labbra più fervide | Ribaciansi ancora | Vè l’alme uscir fuora | In un bacio d’amore”. “De freddi cadaveri | L’amplesso abborrito | Il torvo marito | Di nuovo guatò | Ma vide in sua rabbia | Che morte se lega | I sensi, non slega | Gli amplessi d’amor”.
Omnia Vincit Amor!
Anche una ferita mortale, infatti, nulla può contro l’amore eterno. Anzi, gli strali rendono le labbra degli amanti ancor più fervide e ancor più fervidi i baci che continuano ad avvincere le loro anime anche quando s’allontanano come “meteore sanguigne”.
E per concludere con ancora maggior chiarezza la rivoluzionaria provocazione poetica, ecco svelato il vero colpevole, il “torvo marito” che Gianni condanna a una pena feroce: vedrà, con rabbia, le sue vittime avvinte per sempre. Perché neppure la morte “slega gli amplessi d’amor”.
Certo, quell’anime devono poi volare “là dove Alighieri mancò”. Ma la pena a quei giovani innamorati, con quell’abbraccio eterno, è quasi un premio. La morte è eternità, traguardo sublime per la passione d’amore che non può e non deve essere repressa.
Una Francesca da Rimini, anzi una “Francesca di Arimino”, davvero nuova, rivoluzionaria e ribelle, quella nata il 30 luglio 1795.
Che non avrebbe potuto proliferare nella fantasia e nel cuore dei tanti artisti che seguiranno, se non avesse avuto nell’inganno nuziale subito – già doviziosamente raccontato da Boccaccio – il pilastro indispensabile a supportare i valori positivi della sua nuova dimensione. Ma che, per la prima volta, afferma la necessità di sovvertire, anche in amore, regole antiche e ingiuste, anticipando l’interpretazione che – a partire da Foscolo – la critica romantica farà del canto V, con l’attribuire alla passione, libera da ogni imposizione moralistica, un carattere di onnipotenza.
La prevaricazione della libertà personale giustifica ogni reazione delle vittime, compreso il tradimento di un vincolo matrimoniale imposto contro la volontà. Gianni lancia un messaggio forte e affascinante. Irresistibile per quei nuovi uomini e quelle nuove donne infiammati dal desiderio di un’ancora sconosciuta libertà. Un’affermazione ideale e poetica la cui importanza storica va ben oltre il valore letterario, certamente relativo, del poemetto di un arcade giacobino errante.
Francesco Gianni, un arcade giacobino errante
Quel 30 luglio erano trascorsi sei anni dalla presa della Bastiglia. La Francia e Parigi erano ancora insanguinate dalle ghigliottine, in preda alla furia dei sanculotti. Gli echi e i venti di rivoluzione erano sempre pi§ vicini al Bel paese ove un giacobinismo dissacratore e determinato a far piazza pulita del passato, iniziava ad attrarre non pochi italiani. Tipi politicamente ‘esuberanti’ come il nostro Francesco Gianni, protagonista della serata a Palazzo Gori. Accolto all’Accademia dell’Arcadia nel 1777, nonostante l’origine umile e l’assoluta mancanza di istruzione, Gianni venne considerato dagli anni Ottanta del Settecento il campione degli “improvvisatori”, genere poetico a quei tempi molto in voga. Sorprendeva per la facilità e l’eleganza con cui riusciva a declinare e declamare in versi i temi più strani che gli venivano suggeriti all’istante. Per questo suo talento divenne un uomo di spettacolo amato e conteso, ricercato anche per la sua irrequietezza e per la vivacità delle polemiche con altri letterati, come Vincenzo Monti, con il quale alternava periodi di affettuosa amicizia ad altri di feroce ostilità. Ma anche per le sue idee e il forte impegno politico all’insegna della Rivoluzione.
Giacobino dichiarato, nel 1793, dopo l’omicidio di Ugo Basseville, per non rischiare la vita abbandona Roma e si trasferisce a Firenze. Anche nel pedigree di Pier Antonio Gori, l’orgoglioso suggeritore del tema nella tornata poetica senese, non mancavano segnali pericolosi: di lì a pochi anni, la polizia segreta toscana lo inserirà infatti in una lista di massoni “creduti dal pubblico ancora attaccati a Napoleone e a Murat”.
Ma la voglia di Rivoluzione e l’impeto poetico non sarebbero bastati a scatenare l’estro di un vero poeta. A “riscaldare l’immaginazione del nostro Gianni”, come dichiarava Gori, fu infatti la bellezza di una “ornatissima” dama, Teresa Fabbroni Pelli, che univa un “fisico modellato da Amore e da le Grazie adornato” a uno “spirito colto e sagace”.
Da: 1795, senza catene. Fuori dall’Inferno, fuori dalla Commedia: nasce la nuova eroina, in F. Farina, Francesca da Rimini, Storia di un mito. Letteratura, arti visive e musica tra XIV e XXI secolo, Firenze, Vallecchi, 2022, pp. 41-43.
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